Tindari e il suo nome

In periodo ellenistico gli abitanti di Tyndaris, Tindari, i tindaritani, definivano se stessi nel dialetto greco che parlavano, il dorico – lo deduciamo incrociando le scritte su monete e pietre – ο δάμος των τινταρίτων. Si tratta di una frase che ammette diversi significati: la terra o il paese o il popolo dei Tindaridi.

Chi erano i Tindaridi? Nella mitologia greca erano i discendenti di Tindaro, re di Sparta, ovvero sette tra fratelli e sorelle: Clitennestra la sposa e assassina di Agamennone, madre di Oreste, Timandra, Filonoe, Febe, Elena, moglie di Menelao il cui rapimento da parte del principe troiano Paride fu all’origine della guerra di Troia, e infine Castore e Polluce noti come i Dioscuri e i Tindaridi per antonomasia.

Perché proprio a loro due i fondatori di Tindari, un gruppo di combattenti di ventura al servizio di Siracusa e del suo tiranno Dionisio I provenienti dal Peloponneso contro i Cartaginesi, decisero di richiamarsi imponendosene il poleonimo?
Per comprenderlo bisogna partire da quello che è l’elemento fondamentale del paesaggio tindaritano, nell’ interpretazione dell’ambiente naturale realizzata e trasmessa sino a noi dai coloni peloponnesiaci, ovvero il promontorio di Tindari, alla testata di un crinale secondario che si diparte da quello principale lungo la catena montuosa, monti Peloritani e Nebrodi parallela alla costa tirrenica.

Sospeso tra cielo, terra e mare, “fra larghi colli pensile sull’acque delle isole dolci del dio” nei versi di Quasimodo, i coloni riconobbero nella forma primordiale di questo luogo un archetipo celeste, che ci piace immaginare si parò dinanzi ai loro occhi, stagliato nel cielo forse tra la primavera e l’estate del 396 a.C. quando giunsero in queste zone per la prima volta, immediatamente soprastante il promontorio: la spezzata definita in cielo dagli astri della costellazione dei Gemelli.

A tale costellazione i due fratelli eroi della madrepatria dei coloni Messene come cavalieri del cielo erano da sempre associati come anche alla comparsa allora della stella Sirio nel cielo in prossimità dell’equinozio di primavera, in connessione anche con il dio Mercurio, venerato nella città di Tindari.

Una configurazione del cielo che prometteva l’arrivo di una stagione mite capace di proteggere i naviganti durante le tempeste marine. Salvatori dei marinai e apportatori di calma sul mare annunciavano a volte il loro soccorso con quello che i moderni chiamano fuoco di Sant’Elmo.

Scrive di loro Eratostene: “Cresciuti in Laconia, acquistarono grande fama e superarono chiunque nel dare prova di amore fraterno. Infatti non vennero mai a contendere né per il potere né per altro. Zeus, volendo conservare memoria della loro capacità di condividere ogni cosa, li chiamò Gemelli e li pose entrambi nello stesso punto fra le stelle”. Generosi tra loro e con gli uomini: Polluce avrebbe infatti dato metà della sua immortalità al fratello Castore, che non la possedeva, morto in una delle loro avventure, così da poter dividere con lui la vita e la morte e con gli uomini tra cui alternavano oltre che con l’Olimpo la loro presenza salvifica.

L’uno domatore di cavalli, l’altro pugile; entrambi cavalieri celesti, veloci, sorprendenti, risolutivi nelle battaglie come si volevano anche gli uomini d’arme fondatori di Tindari. Argonauti insieme a Giasone e agli altri eroi si avventurarono nella Colchide per riconquistare il Vello d’oro.

Una storia nelle nebbie del tempo: una tradizione ancestrale protoindoeuropea presenta due analoghi eroi fratelli nei Veda.

Benvenuti nella terra della libertà, del coraggio, della generosità la terra dei Tindaridi!

396 a.C. la fondazione di Tyndaris.

Ogni fondazione di città è una narrazione. Enuncia un programma. Come ogni rappresentazione mitica nel delineare un passato ancestrale prospetta in realtà il futuro.

E’ proprio il promontorio tindaritano, con la regolarizzazione del pianoro in terrazze, primo di una serie di atti territorializzanti, seguita dalle mura sul ciglio tattico, che permette al “popolo dei Tindaridi” di narrare la propria fondazione, il proprio programma e il proprio destino interloquendo in un ampio spettro di prospettive, fisiche ma anche immateriali, negli spazi del mare, della terra, del cielo con le comunità altre.

Ben visibile dal punto in cui il percorso di lunga durata dall’interno dell’Isola, lungo il crinale, giunge in vista della costa e da tutte le alture circostanti, controllate dalle genti sicule ostili e dai nemici cartaginesi, la sistemazione infatti palesava che lo sbocco al mare era lì interdetto e lo specchio d’acqua antistante era ora invece controllato da un organismo politico di uomini liberi, una comunità cittadina di greci alleati di Siracusa, con i propri organismi di governo, edifici pubblici, templi, una organizzazione amministrativa, leggi, moneta e prossimamente controllato e conformato a questa impronta sarebbe stato anche tutto l’entroterra.

Dinanzi a tutto ciò oggi una domanda ci interpella: costruire una relazione nuova e potente tra visitatore e paesaggio della città antica, per rendere di nuovo possibile nella sua proiezione marina, terrestre e celeste la percezione storica e simbolica della missione in questi spazi dell’antica città dei Dioscuri.